Secondo articolo per la rubrica: “Lavorare nel 2020: diario di uno studente”. Una simpatica rubrica per raccontare la mia vita lavorativa negli ultimi 4 anni di vita.
La mia odissea era cominciata: come Ulisse, mi sono perso, stupito, innamorato. Di una donna? No, della doccia dopo sei ore di lavoro. Tuttavia sapevo di non aver visto ancora nulla, lo sentivo sulla pelle.
Giorno 4: la domenica del vino
Ammetto che, per paura di non essere capace, i giorni precedenti al “primo giorno” mi sono esercitato un po’ a casa a portare tre piatti. La mia è una famiglia di cuochi, insomma, con i ristoranti ci hanno a che fare da almeno 30 anni. Tuttavia, riuscire a portare 3 piatti – 4, per i cosiddetti “somelier di sta beata minch…” – è solo una questione di equilibrio e metodo. Lo stesso discorso non vale per l’apertura della bottiglia di vino. Se nessuno ti spiega un metodo o ti fa vedere come fare, sì, puoi imparare, ce la puoi fare, ma non alla prima volta che lo fai. La prima volta, si sa, non è mai nulla di che – ok, basta doppi sensi! -, ma la mia è stata decisamente un disastro. Mentre i miei colleghi stavano finendo di mangiare sono arrivati i primi clienti: un tavolo da 4, due coppie sulla cinquantina.
La tatuata: “Gabri, vai tu?”.
“Corro!”.
Parto dalla cucina, attraverso la strada (poi vi spiegherò meglio, non è un dettaglio da tralasciare) e mi dirigo verso i clienti.
Giorno 4.5: l’enologo
“Buona sera signori, prego, accomodatevi!”.
Nel frattempo che loro si siedono, prendo al volo il menù e lo presento loro, come neanche il cuoco avrebbe saputo fare.
“Buona sera, ragazzo, portaci la carta del vino, cosa mangiare lo decideremo solo dopo”.
“Ma certo!”.
Sorrido e vado a prendere la carta dei vini. Dopo una breve discussione, uno dei due signori mi sorride e mi dice: “Però, che prezzi! Ci porti questo!”.
Mi mostrò un vino che sinceramente non saprei neanche pronunciare.
“Guarda, secondo frigorifero più o meno nel mezzo, lo trovi lì!” mi dice un collega mentre sistema le posate.
“Ce l’hai l’apribottiglie?”
“Certo!”
“Lo sai usare?”
“Naturalmente (manco per il cazzo), però dimmi se devo fare qualcosa in particolare!”
Il collega mi spiega tutto e nel frattempo mi fa vedere come aprire una bottiglia, ottimo, ha funzionato, ho pensato!
“Guarda, prendi questo, lo ficchi dentro, lo punti sull’estremità del tappo e tiri”. Il collega aveva la mitica sindrome del “coso”: coso, di fatto, è come la x nelle equazioni, può essere una cosa, un’altra, piccola, grande. Io che diavolo ne so?. Prendi quel coso, dai lo sai cosa intendo, quel coso che serve per fare le cose. Certo, ovvio!
“Perfetto, grazie!”.

Mi avvicino al tavolo con il tovagliolo appoggiato sul braccio, la bull piena di ghiaccio in una mano e la bottiglia nell’altra. Predispongo tutto a dovere, poi prendo l’apribottiglie e inizio a tribolare.
“Prendi il coso e ficcalo dentro” e fin lì ci siamo. Avvito e dopo inizio a tirare. Qualcosa non va: il tappo è particolarmente duro e il tempo passa.
“Vuole una mano?” una signora.
“No no, scusate, ho le mani un po’ sudate; ho quasi finito!” avevo, sì e no, 2 dita di sudore sulla fronte.
“Primo giorno?” mi chiede ridendo il signore che mi ha chiesto il vino.
“Secondo” rispondo io un po’ imbarazzato.
Ridono un po’ fra di loro e una delle due signore mi dice: “Tesoro mio, ti è andata proprio male, sei capitato proprio al tavolo sbagliato”.
“Perchè?” chiedo un po’ imbarazzato e un po’ confuso.
“Mio marito è un enologo!” e mi indica il signore che mi ha chiesto il vino.
“Scusate, sono desolato. Se per voi non ci sono problemi, appoggio un secondo la bottiglia e ve la apro.”
“Lascia stare” mi risponde l’enologo, “faccio io, o mi farai morir di sete”.
Inutile dire che dopo quell’evento, oltre a sprofondare nella vergogna, ho evitato quel tavolo come la peste bubbonica. Gesù, che figura di merda!
Giorno 4.9: la paga
Secondo giorno finito, non ho rotto piatti, ma la figuraccia con il tavolo a inizio serata rimarrà un ricordo indelebile. A quanto pare, per chi non lavora lì tutta la settimana (io e altri due colleghi), la domenica sera è tempo di paga. Ci chiamarono ad uno ad uno, come se il nostro “stipendio” fosse un segreto, e il capo – che a quanto pare, oltre a direttore di sala, Antonino Cannavacciuolo versione femminile e interprete, è pure una grandissima contabile – mi chiese: “Allora? Com’è andata? Ti sei trovato bene?”
“Sì, assolutamente! Mi piace molto” – ma che cazzo…? –
“Bene, bene… quante ore hai lavorato?”
“Non saprei, 7 ieri e 6 oggi, all’incirca”
“Perfetto, questa è la paga! Ti va bene?”
“Sì, sì, va benissimo…”
Trenta euro. Trenta fottuti euro. Io non sono un mago con i numeri, ma se fate un breve calcolo, vi potete rendere conto della situazione. Del resto, che diavolo avrei dovuto dirle? Questo stipendio è una merda, meglio andare a raccogliere il basilico?
Che poi, ora che ci penso, ho preso 30 euro ogni due servizi per tutto il resto dell’estate, che cazzo mi chiedi a fare quante ore ho lavorato?